
Può un robot allenare la nostra capacità di raffigurare lo spazio circostante?
È la branca della robotica che viene studiata presso il RobotiCSS Lab dell’Università degli Studi Milano-Bicocca e che il professor Edoardo Datteri presenta ogni anno nei suoi corsi universitari.
Meri Correani è una delle sue studentesse e per l’esame di Educational robotics ha voluto cimentarsi con la stesura di un progetto inedito, dedicato alla memoria di lavoro visuo-spaziale.
Memoria di lavoro visuo-spaziale. È il termine tecnico con cui si indica il sistema cognitivo che conserva ed elabora nuove informazioni a partire dalle nostre percezioni visive.
Memorizzare la dislocazione degli oggetti e immaginarne possibili proiezioni nello spazio sono alcuni esempi di operazioni influenzate da questo sistema.
Da qui la sua importanza nell’apprendimento e l’interesse a capire se sia un’abilità che si può in qualche modo allenare.
«Più che un lavoro di revisione della letteratura sul tema, quello che mi interessa è cimentarmi nello sviluppo di un piccolo progetto di ricerca. Dunque stabilire la domanda che volevo indagare, elaborare delle strategie per rispondervi, testarle e analizzare i risultati.»
Meri Correani ha scelto di usare un piccolo robot chiamato mTiny, e di lavorare con una bambina di 5 anni.

Capire se un robot influenza positivamente o negativamente una nostra capacità richiede necessariamente una misurazione.
Nel suo progetto, ad essere rilevati sono stati gli errori e il tempo che una bambina coinvolta nello studio ha impiegato per risolvere un piccolo gioco.
«Le ho presentato una griglia su cui, di volta in volta, io disegnavo dei cuori. La lasciavo osservare l’immagine per un minuto e poi la coprivo.»
A quel punto, la bambina doveva andare a memoria, ridisegnando i cuori nelle posizioni in cui li aveva visti. Nel frattempo, Meri annotava: tempi, esitazioni, richieste più o meno implicite di suggerimenti ed errori fatti. «La parte più difficile è stata non cedere a queste richieste di aiuto» ride Meri.
Questo è importante perché il rischio di influenzare l’esperimento, interagendo col soggetto, è sempre molto alto.
In particolare, l’ispirazione è arrivata dai lavori del neuropsicologo italiano Francesco Benso. Meri ci racconta: «Questi training in realtà sono spesso creati ed usati per fare valutazioni cliniche. Nel mio caso, però, quello che mi interessava era semplicemente stimolare il sistema cognitivo e non fare un’analisi medica».
Il piccolo gioco-test a cui Meri ha sottoposto la bambina è servito a raccogliere un set di dati di partenza. Questi verranno poi confrontati con i risultati ottenuti dopo aver interagito con il robot.
«Un paio di ore al giorno ci mettevamo assieme a giocare col robot». Le attività erano strutturate in un crescendo di difficoltà.
«Dopo una fase preliminare utile a prendere confidenza con i comandi del robot, le costruivo dei percorsi con i blocchi di frecce e posizionavo mTiny sulla casella di partenza. A quel punto le domandavo di dirmi dove sarebbe finito seguendo quelle istruzioni».
Per arricchire la sfida, spesso alla bambina veniva chiesto di cambiare la posizione da cui osservava la mappa.
«Quando anche questo le è diventato familiare, siamo passati a progettare i percorsi. Io le dicevo da quale casella della mappa partiva mTiny e dove doveva arrivare. Lei si studiava il percorso mentalmente, poi ordinava i blocchi con le frecce e avviava il robot per vedere se le sue istruzioni erano corrette».

«Ad un certo punto ha voluto iniziare a progettare i percorsi. Questo mi ha posto di fronte alla questione su quanto spazio potessi lasciare alla sua iniziativa e alla creatività senza influenzare l’esperimento».
Alla fine, Meri ha scelto di seguire la sua creatività. «I suoi percorsi non erano meno complessi di quelli che ideavo io. Anzi, alle volte capitava che scegliesse di far fare al robot delle strade, corrette, a cui io non avevo pensato. È stato davvero interessante poterla osservare».
«Alla fine dell’attività ho riproposto alla bambina lo stesso test iniziale per capire se, rispetto alla prima volta in cui l’aveva eseguito, ci sono stati dei miglioramenti.»
La risposta è sì. «I tempi di risoluzione si sono dimezzati e non ha fatto errori» commenta Meri, soddisfatta. Almeno su questa piccola scala, dunque, il risultato è stato positivo e lascia intuire la potenzialità di un approfondimento.

Molto del lavoro di un ricercatore sta nel porsi domande precise e sviluppare strategie misurabili e il più possibile controllabili: un’operazione non semplice quando si ha a che fare con esseri viventi.
«A onor del vero la realtà è sempre più complicata di quel che potrebbe sembrare. All’inizio, per esempio, temevo che qualsiasi interazione o qualsiasi adattamento in corso d’opera delle attività da fare costituisse una pericolosa deviazione. Insomma che rischiasse di falsare tutto. Poi ho visto che, in realtà, così facendo avrei finito a condizionare ancor di più gli esiti, facendo scemare il coinvolgimento della bambina.»
C’è dunque un’importanza formativa che va al di là del lavoro svolto con la bambina e il robot e che ha a che vedere con la crescita professionale.
«Da questa esperienza la bambina porterà a casa l’essersi divertita con un robot e aver allenato la propria capacità di distinguere destra e sinistra, fare proiezioni nello spazio, raffigurarsi mentalmente gli spostamenti di mTiny. Poi c’è quello che ho portato a casa io, ed è essermi scontrata con le difficoltà di progettare, eseguire e analizzare un piano di ricerca, inclusi i miei atteggiamenti durante le fasi di test. È stata una delle esperienze formative più preziose che ho fatto e che consiglio a chiunque si stia formando nel mio settore.»
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La ricerca condotta da Meri Correani è un progetto universitario, semplice da realizzare e applicabile fin dall’età infantile. Sei interessata/o a provarlo con la tua classe o il gruppo di bambine/i che educhi? Contattaci!